Poco meno di un mese indietro, di notte, nel letto, cotto come un kiwi, mentre rileggo Nick Flynn con un occhio su e uno giù, sento un doppio bip. Sullo schermo c’è un cosino verde: è un sms.
Un occhio sul proiettore rosso sul soffitto mi dice che sono le tre e dodici minuti. Chi è che mi scrive un sms? Chi è lo stronzo che mi rompe i coglioni nel mezzo di Flynn? Sfioro il verde che subito si spegne e per un pelo non muoio. Vedo il suo nome, o meglio: vedo le tre X che ho inserito per tenere in mente lui, il mio numero #13, per dirmi di non rispondere, di non leggere, di non cedere.
E invece cedo. L’sms contiene sei righe di istruzioni. Sei fottutissime righe di istruzioni che non si possono eludere e che io dovrò seguire come un fottutissimo robot.
Di nuovo? Mi chiedo, come se servisse chiedere.
Di nuovo, è evidente, come è evidente che lo stronzo si diverte, con me. Si è sempre divertito. Invece io no, io non mi sono divertito un secondo con lui nello scrivere le sue merde, nel prendere i suoi soldi, nel rispondergli, nel fingere che fosse tutto ok, che ci stessi, che fosse uno sgobbo e stop. Che non ne fossi complice, che non mi sentissi coinvolto. E colpevole.
Ho smesso di nutrirmi, di dormire, di essere lucido. Oddio forse lucido non è il termine giusto, per uno che vive solo sotto psicotropi, per un junkie come me, per un coglione come me.
Se torno indietro solo di sei o sette mesi, ero il più figo, il più sexy e il più retribuito dei ghostwriter del vecchio continente. Duecento testoni per libro, zero sconti, zero quote: con tutti quei premi, vorrei vedere, dicevo. Io scelgo, dicevo, tu obbedisci, se mi vuoi, oppure niente, dicevo. Fiction, niente zuppe, solo fiction di livello, un genere solo, unico, no-frills. Dritto come un treno merci, dicevo. Dicevo solo il meglio, solo Dom Pérignon, frozen, nel mio frigo, solo modelli, nudi, dicevo, nel mio letto King size, nel mio loft, io non vengo, dicevo. Dicevo e non oltre il sorgere del sole, fuori di qui, devo scrivere, dicevo, bye-bye, dicevo, ti telefono, ti scrivo, mi trovi online, dicevo. Dicevo un giorno smetto, ne scrivo uno mio, prendo un premio, mi ritiro, questo è l’ultimo, dicevo, poi mollo, un thrillerino e stop, dicevo, un noir veloce
Oggi invece sono solo un coglione, un povero coglione che non vive se non si distrugge. Un coglione che non è più nemmeno un vero ghostwriter.
Solo un inutile copy. Solo. Stufo di vivere. E sepolto di debiti.
Dovevo solo mettere ordine, un po’ di editing e stop, sulle sue note, forse due o tre post per il suo sito e stop, credevo. Poi il tizio mi dice che vuole un nuovo genere, mi chiede se ci sto e io dico ok, certo, come no. Mi chiede di descrivere delle foto e lì per lì non mi preoccupo: uno sgobbo veloce e pulito, nessun nome, zero problemi. Vedo le foto e mi rendo conto: solo morti, feriti, torture, chiodi, coltelli. Gli telefono e gli dico che non ci sto, lui esplode, fuori come un fottuto junkie, e io cedo. Perché ho ceduto? Perché sono un coglione. Sono lo stesso coglione di sempre.
Sono uscito presto per vederlo, prendere i suoi soldi (rossi e merdosi) e finire il mio impegno. Ho un USB. Non dirò niente. Solo un cenno. Un USB contro un plico di euro. Uno schifo. Uno schifo che gioco con le sue regole. È qui. Eccolo. Vedo il suo mezzo, nero. Lussuoso. È un ingegnere lui, uno privo di sospetti, uno pulito, fuori. E putrido, dentro. Ci sono. Consegno l’USB, ricevo il plico. Non scendo nemmeno. Lui retrocede. Io sgommo. Sono un coglione. Uno schifo. Un rifiuto. E lo so benissimo.