DOLCINO DA NOVARA, MARGHERITA, E LE TENAGLIE DELL'INQUISITORE BERNARDO GUI
Un racconto di pura fiction tratto da una storia vera
PROLOGO
Siamo nel luglio del 1300. Gerardo Segarelli, considerato tra i fondatori dei "Nuovi Apostoli", finisce sul barbecue grazie a quel grand'uomo di Papa Bonifacio VIII (alla faccia del nomen omen). Il rogo di Segarelli incendia l’animo di Dolcino da Novara che un mese più tardi impugna la penna per diffondere il suo profondissimo sdegno. Le lettere di Dolcino finiscono nelle mani dell'inquisitore francese Bernardo Gui che non solo non le capisce, ma le travisa: Dolcino parla di amore e povertà, due temi parecchio scomodi a una Chiesa fondata sul loro opposto, senza dubbio imparentati con la filosofia patarina degli straccioni e con quella dei nuovi apostoli di Segarelli. A scanso equivoci, Bernardo riscrive le lettere, in pratica fa un bell'editing di quelli intensi e stila anche una sinossi in venti punti, tipo PowerPoint, che poi presenta al Vescovo Raniero di Vercelli il quale inorridisce e subito gli dà il permesso di dare la caccia all'eresiarca e ai suoi compari, tra i quali Longino di Bergamo e soprattutto Margherita, compagna, assistente, seguace, P.R., e ufficio stampa di Dolcino. La crociata dura quasi sette anni, fino al marzo del 1307. La compagnia si barrica in cima al monte Rubello, in Valsesia, assediata dai soldati di Bernardo che riescono a penetrare nel fortino e fanno fuori quasi tutti i sopravvissuti, tranne Dolcino, Margherita e l’amico Longino, fuggiti attraverso un tunnel. Alla fine del "budello", ormai nel bosco, quando i tre credono di essere scampati al massacro, ecco che finiscono dritti nelle fauci delle milizie. Portati fino a Biella, già messi maluccio, verranno torturati fino alla morte dalle tenaglie del boia e dall'accento francese di Bernardo che legge parole che Dolcino sa di non aver mai scritto.
Quello che segue è il racconto delle ultime ore.
"CHI SEGUE LA LEGGE DELL'AMORE È SOPRA IL PECCATO"
Pura fiction, tratta da una storia vera
Le tenaglie sono sporche di sangue, Margherita ha gli occhi pesti e neri, come è nero e pesto il suo viso, sformato dai calci. Si sforza di guardarmi. Finirà presto, vorrei dirle, se solo riuscissi a parlare, ma è solo il primo giorno.
Bernardo continua a ripetere cose che io so già.
«…che tutta l'autorità conferita da Gesù Cristo Signore alla Chiesa di Roma si è dissipata totalmente e già da un pezzo è finita a causa della malvagità dei prelati...»
Mi sta di nuovo leggendo la sentenza e nel farlo la voce e l'accento addolciscono la sua penna affaticata, gonfia, vecchia, pesante, inutile, morta; quando ordina al boia di prendere questo o quel brandello di carne, o una tenaglia piuttosto che un ferro, fa quasi pena. È la cadenza francese, penso. Sorriderei, potendo.
Margherita ha rifiutato l’abiura. Due volte. È salda, Margherita, come io non lo fui mai fra le sue cosce mentre lei rideva ripetendo “Chi segue la legge dell’amore è sopra il peccato”, dell’Almarico di Benè, maestro del nostro maestro Segarelli.
«… e che la Chiesa di Roma, che il Papa e i cardinali, i chierici e religiosi occupano e sostengono, non è la Chiesa di Dio, ma una Chiesa biasimata, senza frutto. Senza frutto. Senza frutto.»
Tre volte lo ripete, “senza frutto”, forse quattro, con quella erre ostentata, prima di fare un altro cenno al boia, con un mezzo sorriso come lo stesse invitando a servirsi dal desco. "Prego messere" – sembra dirgli – "accomodatevi".
La tenaglia arriva, si avvicina, si ferma sulla spalla destra, sulle ossa esposte, slogate, passa alla sinistra, scende fino al costato; cerca carne non maciullata, non bruciata, non strappata, poi desiste e si stringe sul miscuglio pietoso delle pudende.
Sono in una stanza al piano nobile. Prima dell’alba sono venuti a prendermi nei sotterranei e mi hanno portato qui. Bernardo vuole la luce, non il buio. Sento gli uccelli, il sole è alto e caldo fuori dal palazzo del Vescovo. Credo sia la mezza ma non ne sono sicuro. Tre giorni fa combattevo ancora. Tre giorni fa, barricati dentro l’ultima stanza, murati vivi dentro la rocca, Longino parlava ancora di speranza, Margherita di fuga, io di resistenza.
«Si stancheranno» dicevo.
«Di mille siamo rimasti in tre» diceva lei.
«Appunto, tre di mille, vedrai che ci daranno per morti» dicevo a lei che voleva infilarsi il tunnel, come me certissima che dal budello saremmo usciti illesi. Le legioni del Vescovo erano impegnate altrove, a stanare e infilzare bambinelli e vecchi per completare la loro divina missione.
Fu proprio il budello a intrappolarci. Le milizie irruppero e noi scappammo, mettendoci a strisciare sotto terra. Finimmo dritti in mezzo al bosco, oltre le mura, io sbucai per primo, per nulla prudente, spavaldo e idiota, saltai fuori dalla buca, dritto in bocca ai lupi: il fango non riuscì a nascondermi al cavallo di Bernardo e alle sue froge e al collo che si scossero subito, facendolo arretrare. Giusto mentre Longino usciva, uno dei soldati si accorse di me, quindi di tutti. Ci furono addosso in quattro. Poco dopo, scorsi Margherita a terra, sanguinante, che veniva trascinata via da un omuncolo, certo non un soldato, nemmeno un prete, forse un contadino gonfio di livore santissimo.
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