Lo scrittore esce di casa, chiude porte come fossero catene. Oltre l’orto, avanti casa, perde in terra la chiave. Si china. Potrei prenderlo ora. La macchina non parte. Potrei prenderlo ora, sarebbe un buon momento ora. La sua macchina parte, la mia pure. Seguo lo scrittore sull’asfalto ancora umido di notte, col sole che mai lo asciugherà. La mia macchina odora di velluto. Polvere e velluto. Domani la lavo. Il casello odora di freddo mattina, vola polvere e il vento alza carte, una bustina rossa è ferma, appiccicata all’asfalto. Una patatina dentro, guarda l’autostrada, le macchine sfrecciano, rallentano di botto. Un preservativo. La sbarra è alzata. Passano i camion, il casellante è grigio nella camicia blu. La Porsche è ferma, a viso cattivo lampeggia, altéra e femmina. Lo scrittore scende, saluta, prende una busta marrone. Ha in mano la mia chiavetta. Lo scrittore sorride, dieci parole, china il capo, saluta. Entra in macchina. Io pure. Mette le mani in tasca, si volta, mi guarda, mi guarda? Ha la faccia tirata, una grinfia in volto, tesa tra le rughe, tirata di paura. Si vedono i denti. Ho la testa tra le mani, di sudore e sebo, mi riempie i palmi, da parte a parte, il collo, mi offre, come pane scorza molle e dentro duro. Il rasoio pensa sia di cioccolato. Mentre sento la vita che scorre calda sulle mani, lo scrittore guarda la busta. E’ appiccicosa, la vita. Lo scrittore cade, lo scrittore è morto. Appiccica. Merda.
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