Un lunedì di fine settembre una vecchia station wagon attraversa l’alta Val di Susa, supera l’orrida architettura di Sestriere e raggiunge Claviere, ultimo paese italiano prima del confine francese. Strade semideserte, serrande abbassate, negozi e attività ricettive chiuse. Un cane nero e cicciotto passeggia placido da un lato all’altro della carreggiata.
In auto, il riscaldamento è acceso. Due passeggeri su tre fanno commenti sulla temperatura esterna. O meglio se la ridono per non aver portato, al solito, i vestiti giusti.
– Fa freschino, eh?
– Mamma mia, si gela!
Partono sempre leggeri, loro. E comunque il freddo non è un problema. Anzi, è la scusa per agguantarsi l’un l’altra nella tenda da tetto sopra la macchina, e stringersi, e fare piede-piede, “vieni qui che ti scaldo”.
Mentre la vecchia station wagon fa su e giù per Claviere e avanti e indietro dal confine - Italia, Francia, di nuovo Italia - in cerca di un aperitivo o di una di quelle cene leggere che costano più di un pasto vero, all’altezza di uno spiazzo, forse la fermata degli autobus, o forse solo una rientranza, il guidatore rallenta, scendendo sotto i 20 chilometri orari.
Gli occupanti guardano verso sinistra. Non ridono più.
Hanno visto qualcosa che gli ha tolto la voglia di fare battute sceme.
Due-tre secondi prima uah aha ah che due scappati di casa, e quello dopo muti.
In piedi, a una cinquantina di metri da loro, c’è un gruppo di persone il cui abbigliamento è leggero sul serio e, a differenza dei due che hanno smesso di sghignazzare, non per leggerezza.
Le persone in piedi sono in maglietta. Maglietta a maniche corte.
Dietro di loro la chiesa, sopra i tremila e passa metri del massiccio dello Chaberton.
Non sono sportivi.
Non sono turisti fai-da-te-no-alpitour.
Non sono viaggiatori in cerca di avventura, natura, wilderness, eccetera: guardate quanto siamo selvaggi noi che partiamo leggeri, ce ne infischiamo del meteo e non prenotiamo mai niente e quel che viene viene, tanto abbiamo la tenda, e nella tenda non solo non fa freddo, ma c’è anche un bel piumone d’oca (sostenibile, almeno stando al brand che ce l’ha venduto), poi però mangiamo seduti nelle osterie slowfood e nei bistrot e nelle taverne, raccattiamo ricordini da portare a casa, saponette, tovaglioli. Il tutto per giocare ai temerari.
Per uno dei tre occupanti della station wagon, vacanza vuol dire baule; per gli altri due significa mancanza: di comodità, sicurezza, macchina che fa il caffè come al bar, armadi pieni.
I vestiti leggeri delle persone in piedi che guardano la station wagon e subito abbassano gli occhi sono leggeri perché quelli avevano da dove vengono, quelli hanno, e quelli, probabilmente per un bel pezzo, avranno.
La parola che si respira nella station wagon è un aggettivo qualificativo che inizia con la lettera emme che però non viene detta, solo pensata. Per un po’ in auto non vola una mosca, finché il guidatore non vede un bar aperto.
– Ci fermiamo?
– Sì, dai.
Dal baule, il terzo occupante emette il consueto uggiolio che gli esce ogni volta che sente la freccia.
I tre scendono, entrano nel bar, si siedono, ordinano due aperitivi e una ciotola di acqua, e mentre bevono, due dei tre attaccano bottone con un paio di signore dalle quali scoprono che quello che hanno visto loro è la norma, a Claviere, perché qui - racconta una delle due - arrivano tutti i giorni decine/centinaia di persone sperando di passare di là.
Solo che fa freddo.
Si gela.
E loro sono in maglietta.
Maglietta a maniche corte.
Passano la notte fuori, sulle panchine, o per terra.
E adesso è fine settembre e di notte ci sono ancora due o tre gradi.
Queste persone vengono da terre che non conoscono il freddo.
La signora dice che all’inizio riusciva a vestirle. “Tutte i giacconi, i cappotti, i piumini che avevo e anche quelli che raccoglievo in giro”.
Adesso ha gli armadi vuoti, la signora.
Più tardi, verso le tre e quaranta del mattino, sulle sponde della Piccola Dora, mentre i due turisti-fai-da-te si stringono sotto al loro piumone sostenibile, e nonostante quello non riescono a dormire per il freddo, il loro pensiero torna alle persone in piedi, nello spiazzo.
Il giorno dopo, di là dal confine, sul balcone di uno chalet da cartolina, uno dei tre occupanti della station wagon ha appena finito di leggere il libro di una tizia americana che sostiene che prima di venire in quello che la tizia chiama “questo mondo”, ogni essere umano sceglie che vita vivere.
Compresi gli esseri umani che nascono in mezzo alle guerre, quelli che vengono uccisi a tre-cinque anni da altri bambini-soldato, quelli nei campi di prigionia, quelli che dedicano la loro vita ad aiutare gli altri e a un certo punto vivono l’incubo eterno di uno stupro di guerra, e ovviamente quelli che a Claviere e altrove hanno addosso roba troppo leggera per superare la notte, e dentro roba troppo pesante anche solo per parlarne.
A parte il fatto che la tizia americana nel suo libretto sull’aldilà replichi la storiella delle tre parche (Cloto, Lachesi, Atropo, che poi diventano quattro, se contiamo la sorella che fa Zac) e quindi, parche a parte, la riflessione che continua a girarmi in pancia ha a che fare col privilegio.
Quale privilegio?
Quello di essere in un qui confortevole, ricco e sicuro e vergognosamente mite, una nazione di cialtroni che però mangiano tutti i giorni, o quasi, e hanno la fortuna sfacciata di potersi lamentare delle tasse, dei cialtroni che li governano e addirittura dei cialtroni che non leggono. In uno spazio comodo, in un tempo e con uno status che non mette in pericolo da quando apri gli occhi a quando li chiudi.
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